Mi sono messa, senza accorgermene, nella nota gabbia degli anoressici, illudendomi che così mi sarei posta al riparo da qualsiasi contrarietà, da qualsiasi dolore e responsabilità reale. Dalla mia prigione mi rendo conto di essermi cementata in una posizione di impotenza.
Credevo di essermi resa invulnerabile infliggendomi da sola uno stillicidio doloroso che mi avrebbe immunizzata da qualsiasi attacco esterno e da ogni dipendenza affettiva.
Rinunciando ad essere, ad avere, per la paura di perdere quello che avrei ottenuto, ora sono costretta ad ammettere che, malgrado tutti gli sforzi, sono caduta nella trappola che io stessa mi sono tesa. Da dietro le sbarre posso vedere quello che mi circonda: una vita che mi piace ma alla quale non posso partecipare. E tutto questo me lo sono precluso per l’incapacità di abbandonarmi al piacere di vivere.
Fabiola de Clerq
Mi chiamo Sara, ho 35 anni e conosco perfettamente quella gabbia di cui parla la scrittrice Fabiola De Clerq. La conosco perché me la sono costruita io e ci ho abitato per quasi tre anni. Mi sono ammalata di anoressia a 19 anni, apparentemente in seguito ad una delusione amorosa. Dico apparentemente perché solo con un profondo lavoro su me stessa e con la comprensione del dolore che provavo, ho capito che quell’abbandono che sembrava avermi gettato nell’anoressia, altro non era che la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
A 19 anni ho smesso di mangiare.
Inizialmente dicevo che volevo dimagrire quattro o cinque chili, ma in realtà non riuscivo più a smettere. E quei cinque chili sono diventati rapidamente 15… così sono arrivata a pesare 39 kg, decisamente pochi per i miei 158 cm di altezza.
Sapevo di essere magra, ma per una ragazza anoressica non c’è mai un “troppo” quando si parla di magrezza.
Ho smesso di mangiare… e tutti attorno a me erano convinti che lo facessi per un fatto estetico, nessuno capiva che quel peso sulla bilancia era diventato la mia identità: io ero quel numero e la capacità di tenerlo sotto controllo, di esercitare un tale potere sui bisogni del mio corpo, mi rendeva invincibile.
Se posso controllare la fame, posso controllare tutto, anche l’amore di chi mi circonda.
Ecco il nodo cruciale, l’amore. Perché l’anoressia, e tutti i disturbi dell’alimentazione, non sono disturbi dell’appetito, ma dell’amore. Il malato non è l’appetito. La fame è nella testa e non può essere aggiustata mettendo a posto l’alimentazione. E’ tutto molto più profondo.
Sono arrivata a capire che usavo la mia malattia per gestire l’amore materno e paterno. Rientravo nella classica descrizione della ragazza anoressica: ottimi voti a scuola, mai un problema, adolescenza tranquilla senza ribellioni; insomma, la classica brava ragazza che non dà problemi ai suoi genitori.
Ma la ribellione in adolescenza è sana, serve a definire i propri confini, a capire dove un ragazzo finisce ed inizia l’altro. Bisogna sempre prestare attenzione agli adolescenti che non si oppongono in qualche modo ai genitori; questo l’ho capito sulla mia pelle.
Sentivo anch’io un profondo bisogno di definire i miei confini, la mia personalità, di affermare i miei bisogni, ma temevo che questo ferisse i miei genitori e che io potessi in qualche modo farli preoccupare… e non potevo permettermi questo.
Loro mi amavano perché io ero perfetta, come potevo rischiare di perdere il loro amore?
Tutti dipendiamo dalle cure e dall’amore dell’altro e proprio questa dipendenza, che mette in conto anche i rischi che ogni dipendenza implica, è ciò che l’anoressia cerca di sospendere, di negare attraverso il rifiuto del cibo come scelta estrema di autonomia.
Smettendo di mangiare io stavo interrompendo l’arcaico legame con mia madre, quello del nutrimento: rifiuto il tuo cibo perché rifiuto te, perché solo così mi sto staccando da te, perché solo così mi stacco dalla tua presa.
Il corpo anoressico non è qualcosa davanti a cui si possono chiudere gli occhi. Il corpo anoressico è un corpo che grida aiuto, è un appello di amore
Quell’amore che non si è ricevuto in quantità sufficiente o in modo adeguato. Se da una parte la mia anoressia metteva una distanza tra me e mia madre, dall’altra urlava a mio padre: “Mi vedi? Ti accorgi almeno adesso di me”? Ho avuto un padre meraviglioso, ma che non sapeva amare. Solo negli anni ho capito che non sapeva amare semplicemente perché nessuno glielo avevainsegnato. Lui mi dimostrava il suo amore lavorando tutto il giorno per non farmi mancare niente, ma non era in grado di dimostrare l’amore. Ho avuto fortunatamente poi la possibilità di recuperare il rapporto con lui e di capire quanto amore in realtà provasse per me, ma questa è un’altra storia…
In quel periodo, invece, soffrivo per la sua assenza emotiva e il mio corpo sofferente glielo stava urlando. E quando, finalmente, un giorno mi ha espresso la sua preoccupazione, mi sono detta: “ce l’ho fatta”.
E’ chiaro come in tutta questa storia, il lato estetico non c’entri. A me non importava indossare la taglia 38 per sentirmi più bella, perché bella non ero: il viso scavato, i capelli radi, il colorito pallido, le ossa sporgenti, le conseguenze dell’amenorrea, gli svenimenti continui, gli sfoghi sulla pelle… non c’era nulla di piacevole agli occhi in questo quadro, ma a me, così come a tutte le ragazze che si ammalano di anoressia e di bulimia, poco importava.
Era altro a tenere viva quell’ostinazione, era il bisogno di controllare l’amore dei miei genitori.
Come sono guarita?
Mi sono iscritta a Psicologia, forse con l’obiettivo di aiutare me stessa prima degli altri. Leggevo tanto, soprattutto storie di anoressiche… alcune ce l’avevano fatta, altre no. Io, in modo brutale, mi sono sentita dire da un medico che non ce l’avrei fatta, che se non avessi cambiato qualcosa sarei morta.
In realtà, mi attaccavo molto a questa vita e sono risalita nel momento in cui ho capito il mio dolore. Ho capito cosa stavo facendo, con quale scopo mi ero ammalata, anzi, avevo deciso di ammalarmi. Andare a fondo di quelle cause, rimboccarmi le maniche, leggere, documentarmi, capire che tutto ruotaintorno all’amore e che da lì dovevo ripartire… questa è stata la mia salvezza.
E, casualmente, tra i tanti libri acquistati, ne avevo comprato uno colpita dal titolo: “Dimagrire con la mente” della psicologa americana Dorie McCubbrey. In quel titolo era evidente ciò che io stavo scoprendo, ovvero la relazione tra la mente e il peso.
Posso dire che quel libro mi abbia cambiato la vita in quel momento. La psicologa autrice aveva un percorso molto simile al mio e aveva vissuto sulla propria pelle il dramma anoressico. Una frase mi si era impressa a fuoco nella mente:
“E se la felicità venisse prima di essere magri? Io avevo visto la cosa al contrario, pensando che la felicità potesse venire dal raggiungimento del mio peso ideale, ma perché non provare a concentrami sull’essere felice, senza condizioni, senza riserve”?
Era un punto di vista per me rivoluzionario, ma qualcosa dentro di me mi spinse a provarci, a crederci. Oggi so che qual qualcosa si chiama intuito e che mi ha salvato la vita. Decisi di seguire questo metodo, fidandomi del mio corpo, stabilendo una complicità con esso e, cosa difficilissima inizialmente, amandolo esattamente così com’era: malato, emaciato e sofferente.
D’altronde, non avevo nulla da perdere provandoci. Mi sono formata un quadro mentale di me sana, felice, in salute, in perfetta sintonia con i bisogni del mio corpo. Non ho mai abbandonato quella visione, anche in quei momenti in cui cedevo tornando nel limbo del digiuno; piuttosto che rimproverarmi e giudicarmi, mi rifugiavo in quella visione, la sentivo mia, e agivo come se io fossi già quella persona che volevo diventare.
Quello che è accaduto sa di miracoloso: piano piano ho iniziato a mangiare, a volte ancora spaventata dal cibo, poi sempre più convinta che il mio corpo sapeva benissimo di cosa aveva bisogno e che se lo avessi ascoltato mi avrebbe portato ad avere il peso giusto per me. Inoltre, non ho mai smesso di lavorare sulla mia sfera emotiva, di approfondire quel vuoto di amore che mi aveva risucchiato e portato vicino alla morte. Mi ripetevo in continuazione, come un mantra “Io sono sana, in forma, il mio corpo mi guida verso ciò di cui ho bisogno”.
Questo mantra, insieme alla mia visualizzazione, sono diventati la mia realtà.
Da allora non ho mai smesso di studiare le patologie dell’alimentazione, ben consapevole che sono patologie dell’amore. Tutti i miei studi si sono concentrati su di esse e la mia missione è applicare tutto ciò che so per aiutare che ne soffre a guarire. Perché se è vero che di anoressia si muore, dall’anoressia si può anche guarire. Ed io ne sono la prova.
Vi lascio con un messaggio bellissimo e pieno di speranza della scrittrice Fabiola De Clerq:
Per la persona che è vissuta per anni invischiata nell’anoressia e nella bulimia, trasformare il dolore vuol dire sapere disporre di una strana determinazione. Significa sapere che se si è emersi dalla tragedia di un ricovero ospedaliero o degli sforzi immani per procurarsi il vomito, si potrà affrontare a viso aperto qualunque prova a cui la vita ci sottoporrà. Gli occhi di chi ha esplorato gli abissi della malinconia, della depressione, dell’anoressia e della bulimia sapranno vedere e godere di tutti i colori del mondo.
Dott.ssa Sara Gallo
sari.gallo@gmail.com
3392983435
Ringrazio Sara per questa splendida testimonianza, e ti invito come sempre a lasciare il tuo commento e le tue impressioni in merito, raccontando anche la tua storia di guarigione, qualunque essa sia.
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